Dramma pastorale in cerca di burattini
Il dramma pastorale Orfeo ed Euridice nasce dall’omonimo Bruscello poliziano, rappresentato a Montepulciano nel 2012, di cui è una vistosa sintesi (particolarmente adatta a uno spettacolo di burattini).
Con l’Orfeo sono riuscito ad allontanarmi, almeno un po’, dalle astrusità di Timothy, che sono frutto dell’autocompiacimento o comunque di un gioco che è essenzialmente un solitario, per dirigermi verso una dimensione molto più ampia e sconosciuta: il Bruscello. Pratica sicuramente piacevole, quella della scrittura di poesia per un pubblico determinato, e non destinata a rimanere nel chiuso di un cassetto – assomiglia un po’ ai testi delle canzoni –, ma senza dubbio, dopo un po’ di tempo, soffocante: ogni momento della giornata è buono per scovare nelle parole dette, lette o sentite, una soluzione di una rima. Non tutti siamo Saba, che sappiamo fare cose straordinarie con i materiali più poveri e triti. E così, ora per ora, giorno per giorno, sempre alla ricerca di rime. C’è, tuttavia, un aspetto del lavoro di rima che è straordinariamente proficuo, in tutti i sensi, morale e poetico (e che giustifica da solo l’importanza di questa pratica). Rimando, si scopre quello che Gianni Rodari dice per il suo, pur diverso, «binomio fantastico» (nel suo caso si tratta di due oggetti, di due nomi): che la rima, che è comunque un’associazione, spesso un binomio, viene prima del contenuto. La bravura del poeta e la difficoltà del gioco stanno, appunto, nello scorgere i legami fra due elementi apparentementi estranei.
L’Orfeo, comunque, seguiva l’esperienza di Zelindo il garibaldino, la storia di un falegname di Montepulciano – Zelindo Ascani – che era stato uno dei Mille.
Di questa prima esperienza ricordo con piacere alcuni pochi esiti che, a mio parere, erano riusciti più poetici degli altri – in relazione, naturalmente, alla natura del testo – proprio perché non mi ero fatto trascinare dalle mere e astratte esigenze della trama:
Dall’Atto I, scena 1
Poeta
Io sono qui a far le rime al mondo,
a fermare quanto ’l tempo distrugge,
a tirar su quel ch’anderebbe a fondo,
quel che, se non si tien, col tempo fugge,
e a far quadrato quel che invece è tondo,
quel che, come la neve al sol, si strugge.
Ed io vi dico allor del tempo andato
che se vi duole ancor… non è passato!
Zelindo
Addio, addio, Montepulciano bella,
che sorgi sulla Chiana giù distesa,
il pianto strozza già la mia favella…
Addio Fiorinda: parto per l’impresa,
ma tu, per carità, serba l’anella…
quella sarebbe l’ora tanto attesa.
È sempre duro abbandonar chi s’ama,
anche quand’è la patria che ci chiama!
Fiorinda
Io solo prego Iddio che tu ritorni!
Un’altra grazia, no! Io non ti chiedo
che di medaglie o sangue il petto adorni,
ma solo che tu prenda il tuo congedo.
Per questo pregherò le notti e i giorni:
ch’io possa farmi un povero corredo.
Non mi morir, Zelindo mio, amore!
Che ne morrei anch’io, ma di dolore!
Dall’Atto II, scena 3
Fiorinda
Ogni paura ed ogni tua ferita,
in sogno o in veglia sempre i’ l’ho provata,
e sempre ad una ad una io l’ho patita,
coll’unto de la teglia l’ho impastata,
col filo de la rocca l’ho cucita:
un punto d’ago a lacrima versata.
E tutte son cadute sul ricamo
che, quando ho letto, c’era scritto «T’amo!».
Atto III, scena 2
Narratore[1]
Ei prese ’l largo, genti, un bel mattino,
Zelindo di Girolamo e Luisa,
Zelindo Ascani, il bel garibaldino,
con la camicia rossa per divisa.
Salì sopra una nave Rubattino
per riscattar la patria ancor divisa.
Ma lui partì per una storia vera,
dietro alla sua vita, la sua bandiera.
[1] Nel Bruscello, per esigenze sceniche, attribuito a Zelindo stesso: «Io presi ’l largo …».
La morte di Zelindo (Atto III, scena 3)
Narratore
La storia di Zelindo si concluse,
quella terrena, a Dio così piacendo,
tra mille fiori rossi e mille rose,
in un giorno sereno, un giorno di vento,
che le porte del cielo gli dischiuse
e che sentì tutto quell’ardimento:
e turbinando lo portò con sé
il cinque maggio novecentotré*.
* Controversa è la data, ma non è questo il luogo per discuterne.
Il tono e la musica (di Francesco Traversi) giustamente patriottici fecero il loro effetto.
Poi venne L’Orfeo ed Euridice (il Bruscello poliziano, con la musica di Alessio Tiezzi e la regia di Franco Romani), di cui potremo vedere ed ascoltare alcuni passaggi [link non ancora attivi]:
[link video: 1. Aracne_Come altri giorni_antefatto]
[link video: 2. Parche_Di sorelle_II_3]
[link video: 3. Tantalo_Forse il pozzo_II_3]
[link video: 4. Vedo un boccio_Al modo delle foglie_II_3]
[link video: 5. Baccanti_Or noi siamo (Cuius pampinis)_III_3]
[link video: 6. Ombre_Fa prima morte_Fino a domani_III_3]
Infine, quella che considero la mia versione del mito:
Orfeo ed Euridice. Dramma pastorale in due atti
Come introduzione all’intero testo, basti un’ottava dell’antefatto:
Come altri giorni nella nostra vita,
questo era l’un di quei che sono un guado;
quando l’infanzia nostra è già finita,
quando si tira in aria il nostro dado;
quando comincia l’erta, la salita,
quando si scopre il mondo a grado a grado.
Ma lei non ci arrivò sull’altra sponda,
e il dì si trasformò in notte fonda.
Link al pdf
Congedo
Di un terzo Bruscello – Romeo e Giulietta – scrissi solo l’ottava di presentazione, con la quale, credo, di avere concluso la mia attività di rimatore:
Di quel Romeo a dir ora m’azzardo,
che amò Giulietta e pure fu Montecchi;
e poi che ’l pianto a dir mi fa più tardo,
ognun creda al suo cuor più ch’agli orecchi,
che ’l primo è men di questi due bugiardo;
e meglio ad ascoltare s’apparecchi.
Non la corazza, non lo scudo o l’elmo
ripara da la lancia di Guglielmo.*
* William, ovvero Shakespeare (che potrebbe tradursi come ‘Scuotilancia’ o, come è stato già detto, ‘Crollalanza’).
Timothy, il solito buontempone, mi aveva suggerito un’altra storia con un attacco simile, ma molto più audace. Secondo lui sarebbe stato folgorante: Pensa un po’, mi diceva, allo sconcerto del pubblico al sentire una lingua che non comprende – in questo caso il francese (non corretto storicamente e di sicuro nemmeno grammaticalmente, ma si fa per dare l’idea) –, finché, beninteso, ascolta con le orecchie! E poi, all’improvviso, tum tum tum, ecco che si capiscono le parole perché si ascolta con il cuore!
E io: Timothy, ma che dici, non ci ho capito niente!
E lui: Ascolta!
Tristano e Isotta
De vous chanter l’histoire je me conseille
du grand amour qui lia Tristan et Yseut,
mais vous, si me prêteraiez seulement l’oreille,
alors ni l’entendrez ni rien ni peu:
ma langue comme ce livre-ci est vieille:
le coeur, tout seul, ainsi, l’entendre peut …
… or mi sentite poiché sente ’l cuore,
che d’ogni lingua è buon intenditore!
Fortunatamente non gli ho dato retta! Astruso Timothy! Il quale, però, mi strattona e mi richiama: vuole aggiungere qualcosa, ancora. So che vuole giustificare certe asprezze, qualche passaggio dal tono popolareggiante, qualche idiotismo, e via di seguito. Siate buoni con lui:
Un poco son poeta, e un po’ bifolco
ch’or piego a dritta e poi giro a mancina:
la penna mia procede come solco,
e questo è ’l verso di chi ’l gran semìna**.
** È Timothy stesso a farmi notare che la diastole della terza persona del verbo (semìna in luogo di sémina, come semìnano in luogo di séminano) è tipica dei vecchi contadini di queste zone.